VENEZIA E IL COMMERCIO ADRIATICO DELL’OLIO
Nel brano che segue lo storico Biagio Salvemini illustra il rapporto di complementarità fra l’olivicoltura pugliese e le produzioni industriali dell’entro terra veneziano, evidenziando il ruolo di mediazione svolto dalla Repubblica veneta.
Gli studi di Mattozzi hanno dimostrato la centralità del commercio oleario nell’economia veneziana del Cinquecento e la stretta complementarità in questo settore tra la Puglia e Venezia, dove, ancora alla fine del secolo ( Cinquecento ), l’olio pugliese, utilizzato prevalentemente a scopi industriali ( lanificio e saponificio ), rappresenta oltre l’80% delle importazioni complessive di olio: i cattivi raccolti in Puglia, come quello del 1530-32, ribalzano nella Serenissima come “un gran sinistro”, un’”estrema penuria”, non compensabile dall’attivazione di altre linee di traffico, così come le buone annate vi suscitano immagini di prosperità ed ottimismo (…).
Incisione del porto di Venezia nel 1500
Ma difficoltà e tensioni si vanno accumulando man mano che il secolo si svolge, esprimendosi in primo luogo nel trend, piatto se non discendente, di questi traffici, descritto dalle cifre scarse e approssimative disponibili sul periodo medio lungo. In qualche caso e per qualche anno è possibile guardarli più da vicino. A metà del secolo la prevalenza di Terra d’Otranto su Terra di Bari, nonostante la maggiore lontananza dei suoi porti dai luoghi di destinazione, è ancora netta: nel biennio 1554-55 la prima esporta 84.587 salme contro le 68.590 della seconda; d’altronde, nell’ambito della sua provincia, Bari si colloca in una situazione di assoluta preminenza, con il 44% dell’olio esportato (…).
All’inizio del XVII secolo Venezia è ancora un centro vitale di redistribuzione dell’olio nei mercati nordici e centro europei (poco meno della metà dell’olio entrato in città viene riesportato), è l’arte della lana e il saponificio alimentano una domanda che resta sostenuta. Nel 1626 le fonti venete valutano a 18.000 miara gli arrivi di olio dal mezzogiorno, alla fine degli anni trenta gli arrivi meridionali sarebbero scesi a 14.000 miara, di cui poco meno dell’80% vengono dalla Puglia.
da: B. Salvemini e M. A. Visceglie, Bari e l’Adriatico, in Storia di Bari nell’Antico Regime, 1, a cura di F. Tateo, Editori Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 195-197.
LA CRESCITA DELL’OLIVETO NEL ‘700
Oltre al grano, tra Sette e Ottocento, si diffuse anche la coltivazione dell’olivo, la cui presenza era già particolarmente consistente in Terra di Bari e, soprattutto, in Terra d’Otranto. Le tecniche di coltivazione e i principi di agronomia erano poco note ai contadini: la potatura era malfatta, la raccolta veniva eseguita con la tecnica della raccattatura, cioè si raccoglievano i frutti maturi caduti a terra; l’estrazione dell’olio avveniva di solito in frantoi sotterranei, dopo aver fatto sostare le olive per molto tempo – talvolta anche un anno intero – in cavità ricavate nella roccia. Il risultato era un olio di pessima qualità, non adatto all’alimentazione umana, ma commercializzato per l’illuminazione, per la fabbricazione di saponi oppure la lavorazione della lana. Solo a partire dalla fine degli anni Venti i nuovi sistemi di spremitura delle olive diffusi dal provenzale Pietro Ravanas fecero si che le produzioni del Barese potessero competere con i migliori oli italiani nel mercato degli oli alimentari.
Almeno fino all’Unità anche l’olivo fu in netta espansione tra le colture praticate in Puglia. Già presente nel Salento, nella fascia costiera di Terra di Bari, da Bisceglie fino a Fasano ed Ostuni, e in alcune aree limitate del Gargano, la sua diffusione crebbe gradualmente, soprattutto nel Barese e nel Tavoliere, sia pure senza la travolgente rapidità che più tardi ebbe l’espansione del vigneto.
Cleria Iacobone, Puglia, dal Quattrocento al Novecento – Manuale di storia regionale, Edipuglia 2004, pag. 144.
IL FRANTOIO RAVANAS
In questo brano l’economista Vincenzo Ricchioni ricostruisce la modalità tradizionale di molitura delle olive e le innovazioni introdotte da Toussaints Ravanas, detto Pietro, originario di Aix en Provence, operante in Puglia dapprima a Massafra, poi a Bitonto e nel barese. Ravanas assembla diversi particolari, sperimentati e non, in una tecnica innovativa che riduce sensibilmente i tempi di molitura, migliorando la qualità dell’olio, non più “fetidissimo” come quello prodotto da olive che erano raccattate a terra e dovevano attendere i tempi lentissimi della pratica tradizionale.
Il frantoio che si usava, azionato da un’animale, era ad una sola macina di pietra che girava attorno ad un’asse e che ruotava su una rozza vasca di pietra, dove la pasta, via via che passava la macina, era sprizzata ai margini della vasca, così da costringere uno o due frantoiani a girare intorno ad essa per rimandare la pasta sotto la mola per mezzo di apposite pale di legno. I torchi usati erano di legno, ad uno o due viti (…): la pasta era fatta passare più volte dalla macina al torchio per le necessarie strette sicchè in media non si riuscivano a fare più di due “macinate” di olive al giorno (…).
Al frantoio pugliese aumentò una mola ed alle due mole, dette zoppe perché di dimensioni differenti, applicò dei congegni per permettere che le olive, schiacciate dalla prima macina, fossero portate sotto l’altra macina. Al tradizionale strettoio, poi, con l’aumento dei torchi di legno ad uno o più viti, per la prima pressione, aggiunse un torchio di ferro a pressione idraulica per la seconda stretta al fine di conseguire una lavorazione, dati i tempi, speditissima.
da: V. Ricchioni, L’olivicoltura meridionale e l’opera di Pietro Ravanas, in “Japigia”, IX, 1938.
I FRANTOI IPOGEI, QUESTI SCONOSCIUTI prof. Giorgio Martucci
Origini dei frantoi ipogei…
Frequenti in tutto il Salento, i frantoi ipogei hanno avuto origine nelle isole egee e notevole sviluppo nell’estremo tallone d’Italia. La costanza di temperatura, la difficoltà di furti, l’economicità della realizzazione, hanno favorito il diffondersi di varie tipologie, a partire dal quattrocento. Sotto quei frantoi, uomini ed animali, in simbiosi, vivevano per mesi senza vedere la luce del sole che, solo a fine campagna, avrebbe fatto riaprire i cuori.
Per gli animali, la fine della campagna spesso coincideva con la fine della propria vita perchè, ormai ciechi, venivano ammazzati e la loro carne serviva per imbandire le tavole. Nel settecento si è passati pian piano alle strutture semi ipogee e, quindi alle costruzioni fuori terra. La diffusione dei frantoi ipogei (ogni paese del Salento, in particolare della Grecìa Salentina ne conserva più di uno) è indice dell’importanza che rivestiva, e riveste tutt’ora, per l’economia dell’area, la coltura dell’ulivo.
Il frantoio ipogeo o trappeto ipogeo è il testimone nascosto di una civiltà millenaria. Una civiltà difficile e pesante, uomini e animali allo stesso modo asserviti alla macchina, la fatica estenuante, il lavoro insopportabile erano però necessari per ottenere, dopo lunghi processi di lavorazione, l’oro liquido dell’economia salentina. I frantoi ipogei riguardano il mondo dell’economia agricola del 1500. Essi erano situati almeno cinque o sei metri sotto il livello stradale. Molti trappeti, sono scomparsi perché lo spazio in cui si trovavano è risultato spesso comodo per la realizzazione dei pozzi neri, altri sono stati ricoperti con materiale di risulta. La struttura visibile all’esterno non lasciava assolutamente presagire in cosa consistesse la struttura del frantoio: la facciata esterna declinava verso il basso gradatamente nella parte retrostante ( la facciata era dotata di portale e finestra rettangolare), nella parte più bassa vi erano delle feritoie, queste servivano per calare sacchi e per il ricambio dell’area. Dall’esterno, attraverso il budello (canale) le olive venivano introdotte per raggiungere il deposito (la lunghezza del canale era di 8 m).
disegno di G.Presta
Come l’ulivo è l’aspetto paesaggistico caratterizzante del panorama salentino, il trappeto sotterraneo è stato parte imprescindibile nella cultura economica e sociale del Salento, il luogo in cui si è concretizzata, o ridimensionata, o svanita la speranza, per la stragrande maggioranza della popolazione, di affrontare la stagione invernale in maniera meno stentata.
I vecchi frantoi ipogei conservano, in modo estremamente distinto, i segni della forte e paziente mano dell’uomo e posseggono una spazialità propria degli edifici religiosi, fatta di penombre e di silenzio.
Sono spazi che si sentono immediatamente familiari, che invitano a penetrarli, a conoscerli, a riviverli, perché sono stati costruiti da padri che pensavano alle necessità dei figli.
Questa è virtù preziosa delle opere architettoniche e, purtroppo, è la prima a perdersi quando qualche “appassionato” decide di sottoporre a così detto restauro un vecchio frantoio.
Perché ipogei?
Il motivo più comunemente noto che faceva preferire il frantoio scavato nel sasso a quello costruito a pian terreno era la necessità del calore. L’olio, infatti, diventa solido verso i 6°C. Pertanto, affinchè la sua estrazione sia facilitata, è indispensabile che l’ambiente in cui avviene la spremitura delle olive sia tiepido.
A partire dal XIX sec. i frantoi ipogei furono progressivamente dismessi per ragioni molteplici conseguenti soprattutto all’evoluzione industriale ed a più raffinati ed idonei processi di lavorazione.
Frantoio ipogeo fino al XIX sec. Frantoio semi-ipogeo XIX sec.
I lavoratori nei frantoi, localmente detti trappinari, di solito erano 4 più il loro capo chiamato “tachiro” e di solito erano operai stagionali che mentre nel periodo estivo svolgevano il mestiere di marinai, nella stagione fredda, quando il mare era impraticabile, si chiudevano in questi antri sino alla fine della stagione della spremitura. Da qui la giustificazione di molti termini marinari che troviamo in questo contesto. I loro rapporti con l’esterno erano abbastanza limitati, in quanto, già abituati sulle navi a vivere senza socializzare ed avevano ritmi di lavoro altissimi. Si può ben dire che il loro lavoro venisse svolto 24 ore su 24 con turni di riposo nell’interno dello stesso frantoio in modo da essere svegliati in caso di necessità.
Anche agli stessi contadini che dovevano conferire le olive per la macinatura era vietato l’ingresso nell’interno del trappeto per evitare il verificarsi di furti sia di olive che di olio.
La struttura dei frantoi ipogei si presenta ricavata all’interno di banchi tufacei o calcarei, di solito scavata a mano da cavamonti, chiamati “foggiari”. Lo spessore tra l’intradosso della volta interna degli ambienti ed il piano di calpestio superiore, varia da ml 0,80 a ml 2,00. Tali strutture sono state realizzate sino agli inizi del 1800.
Il frantoio ipogeo di Francavilla Fontana
A Francavilla, il Capitolo della Collegiata, per qualche secolo e fino al momento delle leggi eversive che seguirono l’unità d’Italia, era proprietario non solo di numerosi locali e botteghe nella piazza del fossaio, ma anche di un intero “trappeto per uso di macinare olive e di un corridore attaccato al detto tappeto”, con una rendita, per questo opificio, di oncie 33,10 alla fine del 1700.
Nel 1871, il Comune acquistò dal demanio il trappeto e le case sovrapposte siti in piazza e appartenuti al Capitolo, per una spesa di Lire 8.123,07 , con uno scopo ben preciso, quello di “ingrandire la piazza”. L’acquisto richiese l’autorizzazione del Re, con decreto del marzo 1872 firmato a Napoli, su proposta del sottoprefetto di Brindisi, Winspeare.
L’acquisto del trappeto era stato giustificato con l’intento di allargare la piazza, ma già sin dal 1877 era maturata l’idea di utilizzare quello spazio per mercato coperto. Tuttavia, ancora nel 1892, a venti anni dall’acquisto, il mercato coperto rimaneva un semplice progetto, così come precisò il sindaco Alfredo Barbaro-Forleo.
Alloggiamento dei torchi di spremitura - Frantoio ipogeo di Francavilla Fontana
Uno dei principali ostacoli che impedivano la costruzione del mercato coperto era dovuto al fatto che il trappeto non aveva mai smesso di essere in attività, tanto che nel 1901 il comune sosteneva delle spese di riparazione per quello che veniva indicato come “trappeto comunale”, quindi a servizio di tutta la cittadinanza. Fu infatti pagata al fabbro Capobianco Alessandro la spesa di Lire 42 per riparazioni “ricalcatura ed attrezzi di ferro al trappeto comunale posto in piazza”, ed al falegname Lonoce Giuseppe la spesa di Lire 9,70 per le riparazioni alla porta d’ingresso al trappeto. L’ingresso non poteva essere che quello esistente al fondo della scalinata con accesso da uno dei vani di dove è stato il comando dei vigili urbani. L’esistenza di tale scalinata è riportata nel libro sulla storia dei vigili urbani.
Per tutto il corso del 1901 l’Amministrazione Comunale fu impegnata per l’ampliamento della piazza delle verdure per l’acquisto di altro suolo per costruire il mercato coperto. Niente del genere fu realizzato sotto il sindaco Giosuè De Fazio, pur essendo stata nominata una commissione per compilare una perizia e stima del suolo e dei fabbricati “al’uopo occorrenti per gli ulteriori provvedimenti necessari ad effettuare l’acquisto del suolo e dei vari fabbricati limitrofi demoliti per la costruzione di un fututo mercato coperto”, che non avrebbe dovuto “oltrepassare dal lato di levante il trappeto Scazzeri”.
Solo nel 1904 venne formulato l’incarico ad un ingegnere per il progetto del mercato coperto, che venne approvato a fine anno, in una seduta coordinata dall’assessore anziano Giovanni Tatarano.
Vista dall'alto dell'alloggiamento del torchio di spremitura delle olive -
Frantoio ipogeo di Francavilla Fontana
Nel 1907, infine, fu approvato il progetto dell’ing. Barbaro-Forleo per la costruzione del comando dei vigili, collaudato poi alla fine del 1909. Terminò quindi la funzione del trappeto esistente nell’area utilizzata a mercato coperto solo nei primi anni del 1900. Il trappeto non era l’unico nella zona. Gli isolati compresi tra la piazza e via Bottari, infatti hanno ospitato per secoli diversi trappeti: quello appartenuto al Capitolo, il trappeto Scazzeri, altri due trappeti lungo via Bottari, chiamata anzi via “trappeto Bottari” dove verso il 1959 fu costruito il teatro Olympia, così come ricordano Domenico Di Castri e il gestore dello stesso teatro e probabilmente anche sul terreno dove sorse il teatro Schiavoni.
Francavilla aveva altri trappeti, in diverse altre zone urbane, fra cui via trappeto Salerno, via trappeto Clavica (ora via Brayda), via Marrucci, via ospedaletto; nel 1887 esistevano anche un trappeto Della Corte, tra porta Cappuccini e le Scuole Pie, la strada dei trappeti, nei pressi di via San Nicola, la strada dei trappeti nuovi, nei pressi di Arco Loreto, vicoletto trappeto vecchio.
Se il frantoio esistente sotto l’area del mercato coperto non sarà recuperato e valorizzato, la città sarà privata irreparabilmente di una inestimabile testimonianza della memoria collettiva e della civiltà contadina locale.
da: Il Gazzettino degli Imperiali n°49 Settembre 2006
Le foto del Frantoio ipogeo di Francavilla Fontana sono state gentilmente fornite da Antimo Altavilla.